Per vedere rialzi come quelli ottenuti dalla maggioranza degli indici borsistici nel mese di novembre (uno per tutti, se non altro perché è “l’indice” per eccellenza, lo S&P 500, cresciuto in un mese dell’8,9%) bisogna tornare indietro di decenni: neanche nei momenti del forte rimbalzo “post-covid”, infatti, la forza dei mercati arrivò a tanto. Una forza che ha riguardato (anzi, riguarda, visto il trend) anche il comparto obbligazionario, facendo tornare di attualità il concetto di decorrelazione. Un elemento che ha sempre contraddistinto i mercati finanziari: normalmente, quando i mercati azionari salgono, quelli obbligazionari, penalizzati dal “risk on”, vale a dire la maggior predisposizione al rischio, scendono. Viceversa, quando le azioni sono vendute (risk off), succede l’opposto, con i titoli obbligazionari che crescono. Quella che si definisce, appunto, “decorrelazione”, ovvero correlazione negativa. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, alla discesa dei mercati azionari corrisponde anche quella degli asset obbligazionari; stessa cosa in caso di salita, con la correlazione che diventa positiva. Clamoroso quanto successo nel 2022, con perdite a 2 cifre su tutto il fronte (il “mitico” bund, da molti ritenuto il “salvadanaio” più sicuro, è arrivato a perdere oltre il 20%…).
La domanda, quindi, è: ma è vera forza?
Di certo, da fine ottobre qualcosa è cambiato: a far scattare, in quei giorni, la “voglia di mercato”, la conferma che l’inflazione Usa aveva innestato la retromarcia, con un calo maggiore di qualsiasi previsione. Una “presa d’atto” sufficiente a far nascere la convinzione che la FED aveva “terminato il suo lavoro”. Tassi, quindi, al loro picco, fermi sì per qualche mese, ma poi, con il 2024, pronti ad intraprendere il percorso inverso (le stime di questi giorni si spingono ad ipotizzare 5 ribassi da 25 bp ognuno, per 125 bp totali).
I dati di novembre, resi noti ieri, per quanto riguarda l’Europa, confermano una volta di più il trend, con un livello dei prezzi che, per l’Eurozona, si ferma al 2,4% annuo (0,8% per il mese di novembre), che si confronta con il 2,8% di ottobre. Per l’Italia, rialzo a novembre si ferma allo 0,7% su base annua, con una discesa dei prezzi, nell’ultimo mese, dello 0,5% (anche se va detto che l’inflazione “acquisita” per l’anno 2023 è pari al 5,7%, peraltro ben inferiore all’8,1% dell’anno precedente).
Ovvio che in un contesto del genere, da più parti piovono inviti (l’ultimo del neo Governatore Bankitalia, Fabio Panetta) agli organismi monetari perché programmino con grande cautela e attenzione le mosse future. Le previsioni, come detto (per quanto senz’altro più nitide negli Usa, dove l’anno elettorale incombe e si intensificheranno le pressioni affinchè l’economia rimanga ben sostenuta, giocando un ruolo fondamentale per la rielezione del Presidente Biden, la cui popolarità, peraltro, è pericolosamente – per lui – vicina ai minimi), sono per un “fermo macchine” per qualche mese, in attesa di indicazioni più precise, non tanto sull’andamento dei prezzi (anche se le preoccupazioni non sono del tutto fugate) quanto, piuttosto, sulla tenuta dell’economia. Qua e là (va detto soprattutto in Europa) si intravvedono segnali che inducono a non peccare di entusiasmo (è di ieri la notizia che la Francia, al pari della Germania e dell’Olanda, nel 3° trimestre è andata “sotto”, anche se di un marginale – 0,1%). L’idea che comincia a farsi strada, infatti, è che per qualche mese la situazione dovrebbe, a livello globale, mantenersi simile all’attuale e che solo verso la fine dell’anno prossimo si potrebbe assistere ad un rallentamento vero.
Tutte ragioni che spingono gli investitori e i “money manager” a ritenere che i prezzi (di azioni ed obbligazioni) siano destinati ancora a crescere (anche per motivi di “stagionalità”: la fine dell’anno si avvicina e tutti vogliono presentarsi con numeri tali da legittimare le scelte effettuate), spingendo verso l’alto, nel primo caso, il rapporto prezzi-utili (indicatore quanto mai significativo per valutare la convenienza dei prezzi dei titoli azionari), anche in conseguenza di un possibile calo degli utili aziendali, e nel secondo “schiacciando” verso il basso i rendimenti (basti pensare a quanto successo ai treasury Usa, ma anche ai nostri BTP, che, con andamenti molto simili, sono passati in poco più di un mese dal rendere quasi il 5% al 4,2%, per quanto questo livello sia ritenuto ancora molto interessante e quindi destinato a scendere, “trainato” dalla discesa dei tassi da parte delle Banche Centrali). La paura, da parte di molti, come ricordano alcuni gestori, è di “perdere il treno”, quello che in gergo viene definito “fomo”, acronimo di “fear of missing out” (è noto che l’uso degli acronimi è uno degli hobbies più diffusi nel mondo finanziario: basti pensare, quando i tassi erano sotto zero e la strada obbligata, per portare a casa rendimento, era posizionarsi sul mercato azionario, al famoso “tina”, che stava per “there is no alternative” (agli acquisti azionari).
Quindi, in un mondo in cui la recessione, per il momento, rimane un rischio non così vicino, sfruttare l’attimo è un’opportunità che potrebbe rivelarsi interessante.
Inizia in maniera contrastata l’ultimo mese dell’anno sui mercati asiatici.
Mentre a Tokyo il Nikkei chiude appena sotto la parità (– 0,17%), a Shanghai le quotazioni hanno recuperato la parità.
Non così, invece, a Hong Kong, dove l’Hang Seng perde, al momento, circa lo 0,93%.
Intorno all’1% il calo dell’indice Kospi a Seul.
Si muovono sulla parità i Futures, con quelli europei appena positivi.
Nuovo calo per il petrolio, con il WTI a $ 75,76 (- 0,36%); a spingere al ribasso le quotazioni i contrasti all’interno dell’Opec + (di cui, da ieri, è entrato a far parte il Brasile), a conferma di visioni diverse in merito ai tagli produttivi.
Gas naturale a $ 2,796 (- 0,43%).
Riprende a salire l’oro, a $ 2.061 (+ 0,12%).
Stabile lo spread (176,2).
BTP al 4,22%.
Bund 2,44%.
Treasury Usa a 4,33%.
Guadagna un po’ di terreno il $, che si riporta a 1,0908 vso €.
Nuovo balzo in avanti del bitcoin, arrivato nella notte a superare i $ 39.000 (ora siamo a $ 38.342).
Ps: oggi, su tutti i media, tiene banco la scomparsa di Henry Kissinger, uno dei “grandi” della diplomazia del secolo scorso (ancorchè molto discusso, capace di passare dal golpe del Cile – è ormai certificato il ruolo fondamentale dell’Amministrazione USA – al premio Nobel per la pace). Ma è mancato anche un altro “grande”, questa volta nel molto dell’arte (in questo caso fotografica). A 95 anni, infatti, è morto Elliot Erwitt, autore di alcuni tra gli scatti più noti al mondo. Il suo vero nome era Elio Romano Erviz: chiare le sue origini, lasciando peraltro il nostro Paese circa 80 anni fa (ha vissuto a Milano sino all’età di 10 anni), a causa del fascismo (era di origine ebraica) e si imbarcò per gli Usa 2 giorni prima dell’invasione della Polonia.